Intervista a George Lucas dopo l’uscita di Star Wars, 1977 (parte 1)
Non è difficile immaginare il successo che sommerse George Lucas dopo l’uscita di Star Wars nel 1977, inaspettato in primis per il regista stesso. Tutti i media all’epoca parlavano soltanto di lui e del suo avanguardistico film, e le sue interviste fioccavano nelle più importanti testate giornalistiche. Oggi voglio presentarvi proprio una di queste, un’intervista fatta dal famoso magazine Rolling Stones, quando la pellicola era ancora nelle sale.
L’intervista aiuta a scoprire come Lucas avesse già ben chiaro il futuro di Star Wars. Leggerla dopo 40 anni è davvero emozionante, poiché si intuisce a pieno l’indole visionaria del regista. Data la sua lunghezza, oggi vi propongo solo la prima parte.
Ti aspettavi il successo di Star Wars?
Per niente. Quando è uscito American Graffiti pensavo che sarebbe stato un mezzo successo e che avrebbe guadagnato magari 10 milioni di dollari, che a Hollywood equivale già a un successo, e sono letteralmente impazzito quando è diventato un blockbuster. Mi sono detto: “Come faccio a fare meglio? È stato un colpo fortunato, non penso che si ripeterà”. Ero anche al verde, avevo talmente tanti debiti che ho guadagnato molto meno con Graffiti che con THX 1138 (uno dei suoi primi film).
Avevo bisogno di un film e per pochissimi soldi sono riuscito a strappare un accordo per girare Star Wars. Graffiti era una sfida, perché fino a quel momento avevo fatto solo film folli, astratti e d’avanguardia. È stato Francis Ford Coppola a lanciarmela: “Fai qualcosa di coinvolgente, tutti pensano che tu sia un tipo freddo, perché fai solo film di fantascienza”. E io ho detto: “Ok, lo farò”. Ho fatto Graffiti e poi sono tornato ai miei progetti di fantascienza.
E hai fatto Star Wars.
Sono sempre stato un fan di Flash Gordon e un grande sostenitore delle esplorazioni spaziali e mi è sembrata subito una cosa naturale. Primo, perché farà sognare i bambini; secondo, perché forse farà diventare qualcuno di loro un piccolo Einstein, e la gente si chiederà: “Perché?”. Credo che sia necessario per l’uomo colonizzare altre galassie, allontanarci dalla dura realtà raccontata in 2001: Odissea nello spazio e buttarci nel lato romantico della cosa.
Lo hai detto chiaramente all’inizio di Star Wars con le parole: “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…”.
All’inizio avevo paura delle critiche di tutti i vari genietti della fantascienza, cose del tipo: “Lo sai che non c’è suono nello spazio profondo?”. Ma io volevo dimenticare la scienza, quella basta da sola. Per quanto mi riguarda, Stanley Kubrick ha fatto il film di fantascienza definitivo e sarà difficile per chiunque fare qualcosa di meglio. Non volevo fare 2001: Odissea nello spazio, volevo un fantasy ambientato nello spazio, che fosse più simile ai libri di Edgar Rice Burroughs, quel tipo di storia che ha avuto molto successo, prima che negli anni ’50 prendesse piede il genere della fantascienza vero e proprio.
Dopo la bomba atomica, tutti hanno cominciato a scrivere di mostri mutanti, di scienza, previsioni su cosa potrebbe succedere e cose del genere. I romanzi di divulgazione scientifica sono certamente molto validi, ma secondo me si dimenticano delle favole, dei draghi, di Tolkien e di tutti i veri eroi.
Hai trovato molta resistenza verso questo progetto?
Sì, l’avevo presentato come un progetto vendibile, che poteva fare più o meno 16 milioni di dollari. Sono andato alla United Artists Studios e ho detto: “Questo è quello che ho intenzione di fare. È Flash Gordon, è avventura, è una specie di James Bond, è esaltante”. E loro mi hanno risposto: “No, non la vediamo così”. Allora sono andato alla Universal e mi hanno detto la stessa cosa.
Alla fine sono riuscito a convincere la Fox, che ha visto un potenziale e ha accettato di produrlo. Ma nessuno pensava che sarebbe stato un successo del genere. Ho continuato a fare ricerche e a scrivere la sceneggiatura, ho fatto quattro stesure prima di trovare quella giusta, perché il problema con un film così è costruire un genere completamente nuovo che non è mai stato fatto prima.
Come spieghi un Wookiee ai membri del consiglio di amministrazione di uno studio?
Non puoi, semplicemente. E come fai a spiegarlo al pubblico? Come fai a mettere a punto il taglio giusto di un film del genere? Non è un film per bambini, ma è comunque intrattenimento e non ha tutta quella violenza e quel sesso che vanno di moda adesso. È basato su una visione, una specie di onesta visione complessiva di come vorresti che fosse il mondo. Ho inserito anche dei temi su cui ho lavorato in THX e Graffiti, come per esempio accettare la responsabilità delle tue azioni. Ci ho messo molto tempo a finirlo.
Abbiamo fatto la stima del budget e arrivava addirittura a 16 milioni di dollari. Allora ho detto: tagliamo i costi, eliminiamo un po’ di attrezzature e lavoriamo velocemente come sono abituato a fare. THX e Graffiti erano tutti e due sotto il milione di dollari. Abbiamo ridotto il budget e siamo scesi a 8,5 milioni. Ma meno di così era impossibile per un essere umano.
Quando ci siamo incontrati a Londra, mi hai detto che eri in grado di fare un film da 2 milioni di dollari spendendone 1, ma non uno da 14 milioni spendendone 8.
È stato difficilissimo, ma lo abbiamo fatto. Abbiamo fissato il budget a 8 milioni e ci hanno detto di abbassarlo a 7, ma noi sapevamo che era impossibile e lo abbiamo detto chiaramente alla Fox. Risposta: “Fatelo lo stesso”. Praticamente ho lavorato gratis, la mia unica speranza era che il film alla fine andasse bene. Con 8 milioni di budget, il pareggio dei costi è almeno a 20 milioni di incasso.
Quanto sei stato pagato?
Credo 100 mila dollari, circa la metà di quello che guadagnavano tutti gli altri. Ma non mi aspettavo che andasse così bene. Mi immaginavo solo di andare in pari, il resto ancora non me lo so spiegare.
Perché?
Ho sofferto molto, è stato un periodo terribile. Era un film costoso e a un certo punto abbiamo cominciato a buttare via soldi per cose che non funzionavano. Io ero a capo di un’azienda, una cosa a cui non ero abituato. Per American Graffiti avevamo una crew di 40 persone più gli attori. Per THX più o meno lo stesso, è una situazione che riesci a tenere sotto controllo.
Per Star Wars dovevo gestire 950 persone, davo un’indicazione al responsabile di un dipartimento e lui lo diceva all’assistente del responsabile di un altro dipartimento, che lo diceva a un altro tizio e così via, e alla fine di questa trafila non succedeva niente di quello che doveva succedere. Ho passato la maggior parte del tempo ad arrabbiarmi e a gridare e non mi era mai successo prima. Ho capito perché i registi sono delle persone orribili. Vuoi che le cose siano fatte nel modo giusto, la gente non ti ascolta e non c’è tempo per essere gentile.
Anche quando ci siamo visti in California la scorsa estate eri arrabbiato, perché i robot non erano venuti bene. R2–D2 sembrava un aspirapolvere, e si vedevano almeno 57 imperfezioni in C-3PO. Non ti piacevano le luci, sembrava che non funzionasse niente. Era così?
Non mi piaceva la fotografia. Sono un cameraman e preferisco uno stile un po’ più eccentrico ed estremo di quello che ho avuto. Va bene lo stesso, è stato un film difficile con set molto grandi da illuminare e molti problemi da risolvere. I robot non funzionavano mai. Quando comandavamo R2–D2 a distanza, lui si girava su se stesso e andava sempre a sbattere contro le pareti.
Quando c’era dentro Kenny Baker, il nano, era così pesante che non riusciva neanche a muoversi, faceva un passo e crollava a terra sfinito. Non sono mai riuscito a fargli attraversare una stanza: tagliavamo su di lui poi facevamo un primo piano e poi tornavamo su una inquadratura larga in cui lui era arrivato dove doveva essere. Pura magia cinematografica.
Quando ho visto il film sono rimasto sorpreso, non riuscivo a vedere i tagli e le cuciture che hai dovuto fare. Allora sono tornato a vederlo e ne ho viste forse un paio, ma non di più.
Io invece non riesco a vedere altro. Diciamo che THX è il 70% di quello che volevo, perché al 100% non ci arrivi mai. Graffiti era il 50%, ma solo perché non ho avuto abbastanza tempo e abbastanza soldi. Star Wars invece è il 25%. Credo che il sequel sarà molto meglio e non vedo l’ora di girare l’ultimo episodio. Potrei fare il primo e l’ultimo e lasciare che qualcun altro giri gli episodi in mezzo.
Nessuno di quelli che hanno visto il film si chiede cosa sia un Wookiee o un Jawa. Tutti lo accettano immediatamente, perché il film ha un fondamento di fantasia e un modo così elaborato di sottolineare i dettagli da rendere ogni cosa plausibile. Quindi diciamo che sei un antropologo e sei appena tornato dal pianeta dei Wookiee. Cosa diresti?
Che i Wookiee sono un po’ primitivi. Vivono nella giungla, e c’è una scena bellissima, che potrebbe finire in uno dei film, in cui danzano intorno al fuoco con i tamburi e tutto il resto. Sono come gli indiani, dei nobili selvaggi. I Jawa invece sono degli spazzini, trafficanti di rifiuti galattici. C’era una scena ambientata nel villaggio dei Jawa, ma non l’abbiamo girata perché la location era troppo lontana e fuori budget.
Sono affascinato dalla relazione tra i robot e gli esseri umani. I droidi sembrano essere cittadini di seconda classe, come sottolinea C-3PO ogni tanto, ma allo stesso tempo sembrano avere un legame molto forte con gli umani.
I droidi hanno il compito di servire gli umani e fanno quello che gli viene detto. Ma io adoro i droidi, sono i miei personaggi preferiti del mondo di Star Wars. Non volevo che fossero distaccati, anche in THX sono molto amichevoli e non hanno mai cattive intenzioni. In Star Wars volevo approfondire la loro vita e i loro problemi, volevo rendere loro giustizia, hanno dovuto mandare giù molte cose nel corso degli anni e non hanno mai avuto la possibilità di dimostrare cosa sono capaci di fare.
C-3PO è molto affezionato a R2-D2.
Esatto, sono stati progettati come una versione del futuro di Stanlio e Ollio. Rappresentano la parte comica del film, sono quelli che fanno ridere. Non volevo che fosse una commedia, ma volevo che fosse comunque un film divertente. Non potevano essere gli uomini a fare sempre battute, quindi le ho lasciate tutte ai robot perché volevo che sembrassero più umani.
Qualcuno sul set a Londra scherzava sul fatto che il film sembra una specie di guerra di accenti tra inglesi e americani…
Ho cercato di bilanciare con attenzione gli accenti, in modo che a parlare inglese fossero sia i buoni che i cattivi. Ho anche cercato di renderli piuttosto neutri. C-3PO doveva essere come un venditore di auto usate, un po’ untuoso. Avevo scritto il suo personaggio come quello di un truffatore, e non come un puntiglioso maggiordomo inglese. Ma dentro C-3PO c’è Tony (Anthony Daniels) e lui è entrato molto bene nel ruolo. Abbiamo provato altre 30 persone, ma nessuno è stato bravo come Tony, quindi abbiamo tenuto la sua voce.
Di chi è la voce di Darth Vader?
James Earl Jones, il miglior attore che potessi trovare. Ha una voce profonda e autoritaria.
Perché Darth Vader respira così rumorosamente?
Perché volevo che fosse così, quindi l’ho inserito direttamente nei dialoghi.
Una mossa azzeccata, perché aggiunge qualcosa all’elemento terrificante del personaggio.
Gran parte del merito è del tecnico del suono Ben Burtt. Ha provato 18 tipi di respiro diversi, attraverso tubi di metallo o respiratori subacquei, cercando quello che suonasse più meccanico, poi ha deciso che sarebbe stato molto ritmato e simile a un polmone d’acciaio. Questa era l’idea. È tutta in una parte della trama che è stata tagliata, forse ci sarà in uno dei sequel.
Raccontamela.
È la storia di Ben Kenobi e del padre di Luke e di Darth Vader quando erano giovani cavalieri Jedi. Vader uccide il padre di Luke, poi si scontra con Ben Kenobi, proprio come succede in Star Wars, che quasi lo uccide. In realtà cade nel cratere di un vulcano e rimane gravemente ustionato. È devastato, per questo deve indossare l’armatura nera e la maschera, gli serve per respirare. È intrappolato in una specie di polmone d’acciaio ambulante. La sua faccia sotto la maschera è orribile. Volevo girare un primo piano di Vader e lasciare intravedere la faccia, ma poi ho detto no, non voglio distruggere il mistero.
Sono abbastanza felice di aver visto, alla fine del film, Vader sparato via sulla sua navicella nello spazio profondo, ma ancora vivo. L’unica cosa che mancava era la scritta sullo schermo: “Prossimamente al cinema”.
Giusto. L’idea era di lasciare spazio per i sequel. Di solito i miei film sono tratti da un libro, da un fatto storico o da una parte della mia vita. Graffiti l’ho scritto in tre settimane, è stato facile. Ma con Star Wars devi inventarti tutto, devi pensare a tutte le culture diverse di quell’universo, a cosa appartiene e a cosa no, immaginare un territorio che stia a metà tra tecnologia e umanità. Devi trovare l’equilibrio. Quanto puoi spingerti oltre? Il pubblico lo capirà?
Ti dà fastidio l’inevitabile paragone con 2001: Odissea nello spazio?
Anzi, ne aspettavo ancora di più. In realtà è stato paragonato più ai film western che a 2001. Dal punto di vista tecnico, il paragone ci può stare, ma personalmente credo che il film di Kubrick sia molto superiore. Aveva a disposizione dieci volte il denaro e il tempo che ho avuto io, e quindi è venuto meglio. Tempo e soldi sono fattori determinanti negli effetti speciali. In Star Wars la maggior parte degli effetti sono stati fatti al momento, li abbiamo girati, montati e messi nel film così com’erano. Buona la prima, nella maggior parte dei casi. Abbiamo lavorato duramente, ma il mio più grande desiderio sarebbe tornare indietro, avere più tempo e rifarli tutti.
Insomma, già questa prima parte di intervista offre spunti interessantissimi di riflessione. Come al fatto che a Lucas non importasse della veridicità scientifica della pellicola (come molti dimenticano) oppure di come avesse già le idee abbastanza chiare non solo per i sequel, ma anche per i prequel. A questo proposito, rileggere il pezzo di Obi-Wan, Vader e Luke, nonché la questione del “vulcano” è davvero emozionante. Non vi preoccupate, a breve inserirò anche la seconda parte dell’intervista, con tantissime altre sorprese. Stay tuned!
Grazie a Rolling Stones per la fonte dell’intervista