Anche la pausa caffè ora è controllata: basta superare i 7 minuti per perdere il posto | Sentenza già applicata

Licenziamento per la pausa caffè illustrazione (Canva foto) - www.insolenzadir2d2.it
Una recente sentenza della Cassazione alza l’attenzione sui limiti delle pause lavorative: adesso la pausa caffè ti costa cara!
C’è un gesto semplice e quotidiano che scandisce le giornate di milioni di lavoratori: la pausa caffè. Un momento di respiro tra un’attività e l’altra, un’occasione per distendere la mente e ritrovare concentrazione. Ma cosa accade se quei pochi minuti diventano troppi? E soprattutto, chi decide quando una pausa è “eccessiva”?
Negli ambienti lavorativi, i ritmi sono regolati con precisione. Ogni mansione ha i suoi tempi, ogni pausa il suo limite. Eppure, in molti casi, le pause non autorizzate vengono percepite come una consuetudine tollerata. Un’abitudine innocente, si potrebbe pensare. Ma oggi, in alcuni casi, potrebbe costare il posto di lavoro.
Negli ultimi anni, le aziende hanno iniziato a utilizzare strumenti sempre più sofisticati per monitorare la produttività: GPS, badge, sistemi di controllo incrociato. E laddove ci siano sospetti fondati, i controlli possono arrivare a livelli investigativi molto dettagliati. Anche un comportamento apparentemente marginale, come fermarsi spesso al bar, può assumere un peso rilevante se reiterato nel tempo.
La riflessione si apre quindi su un confine sempre più sottile: quello tra diritto al riposo e dovere contrattuale. Quando si supera quel limite, le conseguenze non sono più solo disciplinari, ma possono spingersi fino al licenziamento.
Il diritto al controllo e i limiti delle pause
Nel caso giudicato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8707 del 2 aprile 2025, il protagonista era un lavoratore addetto al servizio porta a porta per la raccolta dei rifiuti urbani. I suoi frequenti stop nei bar durante l’orario di lavoro non sono passati inosservati. Grazie all’incrocio tra relazioni investigative, tracciamento GPS e testimonianze, il datore ha potuto ricostruire un comportamento ritenuto scorretto e reiterato.
Secondo la Corte, il controllo è risultato legittimo, anche grazie al fatto che l’attività investigativa non violava l’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori, ma si limitava a tutelare il patrimonio aziendale nel senso esteso indicato dalla giurisprudenza. Come ricorda Brocardi, è lecito ricorrere a un’agenzia investigativa “quando vi sia un sospetto fondato di illeciti”. In questo caso, la condotta del dipendente era aggravata da precedenti disciplinari, da richiami formali già ricevuti e dalla consapevolezza di rientrare in sede per timbrare regolarmente, nonostante le pause non autorizzate.

Pause non autorizzate e prolungate violano il contratto di lavoro
La Suprema Corte ha stabilito che le pause non autorizzate, se prolungate e reiterate, configurano una violazione del contratto di lavoro. Il lavoratore, secondo quanto documentato, abusava sistematicamente di pause non previste, venendo meno ai propri doveri. Questo ha giustificato, secondo i giudici, un licenziamento proporzionato alla gravità dei fatti.
Il provvedimento segna un precedente importante: superare i limiti delle pause può costare il posto, soprattutto se il comportamento appare fraudolento o recidivo. Non si tratta di criminalizzare il caffè, ma di tutelare un equilibrio tra fiducia e responsabilità nel contesto lavorativo.